Dossier

GLI APPROFONDIMENTI DELLA TORRE DI BABELE

giovedì 27 marzo 2008

Sardegna, sequestri e massoneria


Un tormento di curve. Bisogna attraversare tutta la Barbagia per arrivare a Gavoi, un paesino solare e pulito, 3500 abitanti. Tutti sanno dove abita Antonio Piras. Abita in una grande villa gialla appena fuori il paese. E’ avvocato ma nella sua vita (attivissima) praticamente ha fatto di tutto meno che l’avvocato. Ha settant’anni, molti acciacchi e moltissimi amici. Anche l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga ha dichiarato: “Piras e’ un vecchio amico mio. Massone. Uomo di grandissima probita’. Gli hanno chiesto: ma lei e’ amico dei banditi? E lui: manco per sogno, mi portano rispetto”.
Piras si definisce un uomo saggio. Sul muro della villa c’e’ una grande targa di marmo bianca con questa scritta: "Questa casa e’ aperta a Dio, al sole, agli amici sinceri e a tutti coloro che posso aiutare". La targa non è antica, anzi molto recente. “Amici? E’ vero. In una settimana sono passate da casa mia almeno trecento persone, solo per salutarmi. Ma ho anche tanti nemici, o comunque gente a cui non piaccio. Ancora oggi la mia casa e’ piena di cimici e microspie. Chissa’ cosa si aspettano di trovare. Una volta i carabinieri mi hanno chiesto: avvocato, non verranno da lei anche pregiudicati? Risposi chiaro: da mio nonno e da mio padre ho imparato a non chiedere la fedina penale a coloro che incontro. E’ in quei giorni che misi la targa fuori la porta. Cosi’ non ci sono equivoci”.
- La sua casa e’ aperta innanzitutto a Dio. Ma lei crede in Dio? “Credo sicuramente in un grande architetto dell’universo”.
- Parliamone subito. Lei e’ massone dichiarato. "Certamente. Sono massone fin da giovane. In Sardegna questa e’ una tradizione antica, secolare, che ha prodotto una rete ancor oggi ben funzionante di aiuti reciproci, di mutui soccorsi”.
In Sardegna, gli amici massoni di Piras non si contano. Stanno dovunque: nelle banche, nella politica, nella sanità, nelle professioni, nelle imprese. Dall'ex gran maestro della massoneria Armando Corona, all’avvocato Garau, all’ingegner Tito Melis, anche lui massone dichiarato, fino all’ex questore di Nuoro Elio Cioppa, iscritto alla P2. E’ negli elenchi del 1981: tessera 1890, grado terzo (maestro). E’ stato lui ad annunciare a tutti la liberazione di Silvia.
“La casa e’ aperta a tutti coloro che posso aiutare”: nell’ultima frase della targa c’e’ tutto l’avvocato Piras che ama il ruolo di grande mediatore, dell’uomo giusto, una persona di rispetto. Quasi un padrino, ma non in senso mafioso. “Io non sono un boss. I boss veri hanno eserciti intorno, fanno del male, lucrano soldi. Io sono solo, ho la mia parola che conta, non ho mai chiesto una lira per i miei consigli. E rispetto soprattutto lo Stato. Anche se spesso mi chiedo: ma cosa ha fatto lo Stato per la Sardegna?”
Ha un vanto: per la Barbagia ha sparsi almeno una trentina di figliocci di battesimo o di cresima. Ne e’ felice perche’ sa di avere amici sinceri. “Nella mia vita – dice – non ho mai mancato alla parola data. In una terra difficile, piena di odii e di vendette, la parola e’ molto importante”.
Cosi’ attaccato alla sua terra, eppure per molti anni l’ha abbandonata. Dopo gli studi, se ne va a Parma dove fa l’avvocato, politica (con i socialisti) e il direttore di una grande fabbrica di cucine. Ma resiste fino al 1962 quando decide di tornare in Sardegna. Apre un’azienda a Macomer. Ma e’ solo l’inizio. La sua fortuna arriva nei primi anni Settanta quando entra nel Banco di Sardegna. Fonda la “Sardaleasing” ed e’ la svolta.
Finanzia ogni tipo di attività: dalla piccola alla più impegnativa. Piras conosce i conti di tutti. Aiuta, fra gli altri, un giovane imprenditore che poi gli sara’ molto riconoscente: Nicola Grauso, detto Niki. “Doveva aprire Viodeolina, oggi la prima tv privata sarda. Grauso aveva un fido bancario di 35 milioni – ricorda Piras -. Io l’ho alzato fino a quattro miliardi e da li’ sono partite tutte le sue imprese”.
Piras concorre in quegli anni allo sviluppo di grosse industrie. E tesse molte reti, le amicizie massoniche e attraverso gli sportelli di credito agricolo del Banco quello delle campagne. Si fa molti amici. Praticamente ha l’isola in mano. Cinque anni fa decide di andare in pensione. Unica passione la caccia (ancora oggi ci va: il giovedi’ e la domenica, nelle campagne di Macomer). Ma soprattutto ha un impegno. Deve preoccuparsi dei suoi 174 chili di peso: colpa di un metaboslismo alterato da un’improvvisa rinuncia alle sue quaranta sigarette al giorno. Cosi’ in crisi con il peso al massimo si fa portare dai parenti nella casa di Sassari. Altrimenti se ne sta chiuso nel suo studio di Gavoi. Una sera d’inverno riceve la visita di Tito Melis. Era marzo. Silvia era stata rapita da poche settimane, 19 febbraio. “Non l’avevo mai visto prima – racconta Piras -. Mi saluto’ premendo l’indice della mano sulla mia: capii che era massone come me. Arrivammo presto non a un accordo, ma diciamo a un atto di fiducia, illimitato. Puoi fare qualcosa? mi chiese e io gli risposi: posso far girare la voce che venga trattata bene. Basta andare in giro, al bar o al mercato. Non e’ difficile. Ma ricordati: io sono solo un garante”.
In ottobre la svolta. Melis, che ha affidato all'avvocato il miliardo raccolto per il riscatto, lo va di nuovo a trovare alle cinque del mattino, piangendo. Piras lo sta ad ascoltare. In campo e’ entrato un altro intermediario, don Pinuccio Solinas. Passato glorioso: aveva risolto molti sequestri. Il frate garantisce per un miliardo la liberta’ di Silvia. Piras storce la bocca, non accetta un ruolo marginale. Quando incontra don Pinuccio lo tratta male. “Si vergogni, non si gioca sulla vita di un ostaggio” gli urla e lo mette alla porta. Piras non puo’ muoversi: era stato appena operato, aveva perso cinquanta chili e ripreso a fumare quaranta sigarette. Ma indica a Melis la persona giusta, fidata che puo’ occuparsi del riscatto: quel giovane imprenditore, Grauso. Da quel momento, Melis si affida completamente nelle mani di Piras e si fidera’ solo delle ambasciate di un altro legale, Luigi Garau, un avvocato cagliaritano (anche lui) di fede massonica e in ottimi rapporti con un magistrato una volta sulla cresta dell'onda, Luigi Lombardini, poi messo in disparte perché ha il vizio di mettere lo zampino nelle indagini senza averne ormai titolo.
Lombardini indaga nella zona di Tertenia. Segretamente. Entra in scena invece con tutti i clamori Niki Grauso. Dalle colonne del suo quotidiano “L'unione Sarda” agli schermi della sua televisione “Videolina” fa da grancassa al grido disperato di Tito Melis (“Lo Stato mi impedisce di salvare mia figlia”) che diventa da quel momento il suo grido di battaglia politico.
La regia del sequestro Melis si allarga dunque a un singolare triangolo: Piras, Lombardini e Grauso che candidamente ammette: “Per me il caso di Silvia e’ stato un’eccellente occasione per farmi pubblicita’ a costo zero”. Una vicenda triste come il sequestro di una giovane mamma si trasforma percio’ in un affare per un imprenditore senza scrupoli, un personaggio che vuole essere il puntodi riferimento dell’isola e un magistrato in disparte che vuole dimostrare di essere un grande investigatore.
Dopo il caffe’, prima di uscire, chiedo all’avvocato Piras un giudizio sul giallo della tenda, su Silvia che si libera da sola delle catene. Accende l’ennesima sigaretta, mi risponde quasi diverito: “Conosco bene la zona. Ricordo di aver ucciso un cinghiale, proprio li’. Un cinghiale enorme, il piu’ grande che ho abbattuto”. La sua casa e’ piena di Dio, di sole e di amici (forse) sinceri. Ma certamente anche di infiniti silenzi. Dal libro "Sequestro di persona" di Pino Scaccia - ed. Editori Riuniti - 2000

Antonio Piras è morto il 7 giugno 2007 all'età di 78 anni

L'esercito degli scomparsi

Missing, scomparsi. Per sempre, il più delle volte. E se anche li ritrovano, loro non vogliono tornare. «È il caso di Luigi, lo chiamerò così. Un ragazzo sparito nel nulla un anno fa quando stava per laurearsi. I genitori non ne hanno saputo più niente da un giorno all'altro. Dopo la denuncia, si sono rivolti a noi. Il ragazzo è stato rintracciato poco tempo fa, si trova all'estero. Aveva mentito sugli studi. Non aveva dato gli esami, non stava per laurearsi, e non riusciva più a gestire la pressione delle sue menzogne. Il fratello prima, i genitori poi, sono riusciti a parlargli, ma lui ancora non vuole tornare indietro, non vuole incontrarli, si vergogna. Intende riscattarsi prima di ritornare in Italia». Elisa Pozza Tasca racconta una delle tante storie raccolte da Penelope, l'associazione di cui è presidente rivolta ai familiari delle persone scomparse. Sono molti quelli come Luigi. Nel 2007 in Italia 1.107 maggiorenni si sono allontanati da casa volontariamente o senza apparente motivo. Tre al giorno. Dei primi, resta almeno un biglietto, una lettera, una spiegazione abbozzata a un amico, al medico di famiglia, al collega d'ufficio. Degli altri, non rimangono che le ipotesi: troppi debiti, una situazione familiare infelice, il desiderio di fuggire, la voglia di vendicarsi. Anche Christopher McCandless, del resto, il giovane benestante protagonista del film Into the wild, dopo la laurea parte per l'Alaska facendo perdere ogni traccia non certo spinto dal desiderio di avventura: voleva punire i genitori delle bugie con cui l'avevano cresciuto, voleva vendicarsi. La sua storia, vera, raccontata al cinema da Sean Penn, riguarda quasi 160 mila americani che si eclissano senza nemmeno lasciare un post-it sul frigo. Ma riguarda pure gli italiani, dove in 33 anni, cioè dall'istituzione della Banca dati per le persone scomparse, sono stati registrati 25.567 assenti ingiustificati, di cui 9.357 minorenni. Corriere.it

Robert Kennedy, l'altra verità


C’è un’altra verità, come tanti sospettano, dietro l’uccisione di Robert F.Kennedy, avvenuta in un hotel di Los Angeles nel giugno del 1968? Alcuni periti balistici pensano di sì. Kennedy, sostengono, sarebbe stato colpito da una seconda persona appostata alle sue spalle e non da Shiran Shiran, l’uomo condannato all’ergastolo per il delitto. La teoria – non nuova - è stata illustrata durante un congresso svoltosi nel Connecticut. Un perito balistico, Robert Joling, che ha indagato per 40 anni sull’attentato, è giunto alla conclusione che il colpo fatale non poteva venire dalla pistola di Shiran che si trovava davanti al bersaglio e che, stando alle testimonianze, non si sarebbe mai avvicinato alla vittima. E’ invece più probabile che un secondo tiratore abbia sorpreso il senatore sparando da una posizione defilata e alle spalle. L’autopsia ha infatti confermato che tre colpi hanno raggiunto Kennedy da dietro con una traiettoria dal basso verso l’alto e da destra verso sinistra. Inoltre il proiettile fatale sarebbe stato esploso vicino all’orecchio: infatti ha lasciato una traccia di bruciatura.C’è un’altra verità, come tanti sospettano, dietro l’uccisione di Robert F.Kennedy, avvenuta in un hotel di Los Angeles nel giugno del 1968? Alcuni periti balistici pensano di sì. Kennedy, sostengono, sarebbe stato colpito da una seconda persona appostata alle sue spalle e non da Shiran Shiran, l’uomo condannato all’ergastolo per il delitto. La teoria – non nuova - è stata illustrata durante un congresso. Un altro esperto, Philip Van Praag, esaminando un nastro registrato da un giornalista canadese al momento dell’agguato, ha determinato che sarebbero stati esplosi almeno 13 colpi mentre l’arma di Shiran ne poteva contenere solo otto. Van Praag ha aggiunto che la seconda arma poteva appartenere ad un agente della scorta, il quale interrogato aveva fornito una versione poco plausibile. Le ricostruzioni dei due «tecnici» potrebbero riaccendere le polemiche sull’indagine. La tesi ufficiale del coinvolgimento del solo Shiran non ha mai convinto del tutto e ciò ha alimentato molte teorie su chi avesse organizzato il complotto: dalla mafia agli avversari politici. Un mistero fitto quanto quello dell’assassinio del fratello John a Dallas. Anche nell’uccisione del presidente è probabile che i killer fossero diversi, appostati in modo da poter aprire il fuoco su ogni lato del corteo. Corriere.it